Quando tramontarono Le Launeddas

---------------- di Giampaolo Lallai --------------

Nel n. 6 di questa rivista mi sono occupato delle launeddas, della loro storia millenaria, della discussa etimologia, della costruzione. L'argomento ha destato notevole interesse, a giudicare da quanti davvero molti, mi hanno contattato per saperne di più o per approfondire singoli aspetti. Una piacevole sorpresa perché si percepisce finalmente il desiderio di riscoprire o di conoscere meglio, specie sotto il profilo culturale, lo strumento principe della nostra tradizione musicale. La sorpresa nasce dalla consapevolezza che, ancora oggi, sopravvive, purtroppo quel diffuso atteggiamento di distacco addirittura di rifiuto che molti di noi ostinano a tenere verso tutto ciò che riguarda il patrimonio culturale dell'Isola. Un pesante retaggio che ci portiamo dietro dagli anni Sessanta e Settanta, quando, in nome di una modernizzazione da raggiungere ad ogni costo e in tempi rapidi, abbiamo rinnegato, chi più, chi meno ma in modo generalizzato, gli alti valori di questo patrimonio: la lingua, la poesia, la musica, le tradizioni. Moltissimi lettori mi hanno chiesto, in particolare, quali siano state, proprio in quegli anni, le motivazioni che hanno portato alla quasi totale scomparsa delle launeddas La risposta è abbastanza complessa ed articolata. Infatti la causa della profonda crisi che lo strumento ha attraversato è senz'altro comune a quella che ha colpito, appunto, l'intera cultura sarda e la stessa sardità. Però occorre precisare che per le launeddas la lunga e lenta parabola discendente era iniziata già dagli anni Trenta del Novecento, col venir meno un po' dovunque dell'usanza dei balli della domenica che fino a quegli anni e per tutto il secolo precedente, aveva rappresentato la più importante e sicura fonte di reddito per i suonatori. Appare, quindi, certamente superficiale la tesi di coloro che hanno, invece, attributo questo irreversibile declino alle difficoltà insite nello strumento, tali da scoraggiare anche i principianti più tenaci: tre canne da soffiare simultaneamente; la non semplice tecnica del fiato continuo; la digitazione complicata; l'accordatura molto labile, ottenibile con lo spostamento di qualche milligrammo di cera vergine; i tempi, quasi sempre decisamente lunghi, necessari per tentare di abbozzare la prima melodia. Ora è pur vero che qualcuno, per cercare di superare almeno l'handicap del fiato continuo, aveva avuto l'idea (fortunatamente mai realizzata!)di abbinare anche alle launeddas una sacca d'aria, a somiglianza della cornamusa. Però non è credibile che questo strumento musicale, rimasto inalterato nei millenni, sia diventato all'improvviso difficile da suonare, tanto da rischiare persino l'estinzione. Quanti altri strumenti, allora, avrebbero dovuto subire la stessa sorte? A determinare il declino delle launeddas è stato, invece, proprio il venir meno dei balli in piazza della domenica che si svolgevano nella maggior parte dei paesi della Sardegna e costituivano per i giovani (sa zerachia) un momento di grande divertimento e di aggregazione sociale. Mentre nel Capo di sopra si ballava in prevalenza con il canto a voce singola, con il canto a tenore e anche al suono della chitarra, nel Campidano di Cagliari e di Oristano, nel Gerrei, nel Sarrabus, nella Marmilla e nella Trexenta erano principalmente le launeddas ad accompagnare i balli. Un apposito comitato di giovani ingaggiava per l'intero anno un bravo suonatore col quale, in genere, veniva stipulato uno specifico contratto che evidenziava precisi diritti ed obblighi. Tra questi, ad esempio, quello di non suonare in altri paesi o in case private: una sorta di esclusiva, ricercata dagli organizzatori, per rendere più prestigioso ed invitante l'appuntamento della domenica. La gente accorreva ancora più numerosa quando non aveva l'opportunità dì ascoltare altrove un certo suonatore famoso. Il periodo di tempo che vincolava il suonatore poteva essere l'intero anno, oppure una sola stagione, o ancora alcuni mesi come dalla vigilia di Natale all'ultimo giorno di Carnevale. Molto spesso, poi gli accordi erano dettagliati sino a prevedere i singoli momenti nei quali il suonatore doveva intervenire: di norma in tutti i giorni di precetto, con esclusione del periodo quaresimale, per suonare su ballu de cresia (il ballo di chiesa) all'uscita dalla Messa cantata (sa Missa manna), o anche per i balli che si tenevano alla vigilia della festa, subito dopo la recita del rosario. Le inadempienze erano sanzionate da pesanti pene pecuniarie. Al suonatore era corrisposto un compenso, per lo più in grano, dai 30 ai 50 starelli (uno starello equivaleva a 50 litri). Uno dei più elevati lo percepì nel 1910 Efisio Melis, l'insuperato suonatore di Villaputzu: 50 starelli di grano e 1000 lire in contanti. Le spese erano a carico dei giovani scapoli: chi non contribuiva veniva escluso dal ballo con le buone o con le brutte maniere: a Villacidro, nel 1799, alcuni giovani che tentavano di inserirsi nel ballo pur non avendo corrisposto la loro quota, furono malmenati. Le ragazze, invece, per poter accedere al ballo, regalavano dolci, uova e pane. La scelta del suonatore non sempre si rivelava semplice. Non di rado, infatti, i giovani si trovavano in disaccordo e qualche volta, per evitare che i contrasti nel sostenere un suonatore anziché un altro degenerassero, dovette intervenire l'autorità pubblica (ad esempio, il Prefetto di Cagliari, nel 1835, a Pirri) per tentare una mediazione. Ma gli organizzatori dei balli non demordevano davanti alle difficoltà e pur di garantirsi la presenza dei suonatori più bravi e famosi, erano disposti a tutto. Talvolta ricorrevano persino a sistemi illeciti, come quando, nel maggio del 1813, alcuni tentarono di rapire Elia Floris che si recava per suonare a Las Plassas e pretesero di portarlo altrove. Ne nacque una discussione molto animata e addirittura i rapitori tirarono fuori dei coltelli con l'intento di colpire gli accompagnatori del Floris che si opponevano alla loro arroganza e prepotenza. In quella occasione, per fortuna non successe niente di irreparabile.
Non così, invece, una decina d'anni prima Baradili, nel maggio 1800, il giorno dell'Ascensione: il suonatore Pasquale Corona fu la causa di una rissa furibonda tra giovani che l'avevano ingaggiato per la festa ed altri che avevano organizzato dei balli per proprio conto. Uno di essi fu colpito a morte da una scoppiettata. I suonatori, specie quelli più bravi, erano quindi molto contesi e questo consentiva loro di giocare al rialzo sul compenso. Se una piazza non era disposta a corrispondere quanto richiesto, ne trovavano facilmente un'altra. Tra di loro si scatenava di conseguenza la rivalità e la gelosia, Le feste che richiamavano un maggior numero di persone e che nel sentimento popolare erano le più amate e seguite, erano anche quelle maggiormente ambite perché conferivano enorme prestigio e la definitiva consacrazione, oltreché la possibilità di ottenere compensi più elevati. Perciò il suonatore affermato era un vero professionista: la sua attività gli consentiva un tenore di vita sufficientemente agiato. Grazie ad essa, inoltre, riusciva ad emanciparsi, ossia a superare quelle barriere sociali altrimenti insormontabili per giovani che avessero continuato ad esercitare i loro iniziali lavori di ciabattino, porcaro, torronaio, pastore. La fama, quella più alta, arrideva a pochissimi.
. I più ambiziosi partecipavano alle apposite gare, di cui ancora oggi persiste il ricordo, che mettevano a confronto diretto diversi concorrenti rivali. Si andava avanti sino allo stremo delle forze. In genere prevaleva chi dimostrava di possedere un più vasto repertorio musicale; ma a parità di repertorio e di capacità, la cui valutazione veniva affidata ad una giuria di esperti, la vittoria finale veniva assegnata a chi riusciva a suonare più a lungo, senza smettere un solo istante. Si cadeva a terra sfiniti, ma per il vincitore era l'apoteosi e la sicura prospettiva di nuovi e più lauti guadagni. Lo sconfitto, seppure degno del vincitore in bravura avendogli tenuto testa sino in fondo, subiva, invece, lo scorno e la delusione più cocente. I giovani che si cimentavano con le launeddas erano molti ed erano parecchi quelli che riuscivano ad affermarsi, dopo un apprendistato e un tirocinio particolarmente duri. Fino a quando è rimasta l'usanza dei balli in piazza della domenica, e i suonatori erano, pertanto, numerosi. Poi questo numero è iniziato a calare in modo lento ma progressivo. Infatti, venuta meno la possibilità di aspirare a un futuro più remunerativo e decoroso, i giovani non se la sentivano più di intraprendere il difficile studio dello strumento. Per i suonatori ormai famosi, come Efisio Melis e Antonio Lara, il venir meno dei balli della domenica rappresentò il crollo improvviso di un mondo a cui avevano dedicato tutta la loro esistenza e dal quale avevano avuto gloria e agiatezza. Quelli che, invece, si stavano appena affacciando con profitto a questo mondo, si videro troncare una carriera già promettente e furono costretti a cercarsi altri proventi sicuramente meno sostanziosi e gratificanti. Così Dionigi Burranca che riuscì a sfruttare solo cinque o sei anni di professionismo e dovette, poi, ripiegare sul mestiere di calzolaio; Felicino Pili, anch'egli calzolaio ma anche pescivendolo; Aurelio Porcu che si mise a fare il barbiere. Tutti suonatori di Villaputzu, con esclusione di Burranca che era nato a Samatzai. Aurelio Porcu ha oggi ottantasei anni ed è sempre sulla breccia: suona ancora anche in pubblico. Ricorda quel periodo con un po' di stizza perché di ben altri guadagni avrebbe beneficiato se avesse potuto continuare a fare il suonatore professionista. La sua attività subì, invece, un drastico ridimensionamento: non più i balli della domenica, ma solo processioni, battesimi, matrimoni e feste patronali; ossia occasioni saltuarie, non abituali. A suo avviso l'usanza dei balli venne meno in coincidenza dell'entrata in vigore del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n. 733) col quale venivano disciplinati in modo molto più preciso rispetto al passato, i mestieri girovaghi (compreso quello del suonatore) e lo svolgimento di balli in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico. La prescrizione di licenze, autorizzazioni, ordinanze, tasse, bolli, scadenze, rinnovi e la previsione di pesanti sanzioni per i trasgressori, crearono quasi dovunque disagi, confusione e incertezza sia per i suonatori che per gli organizzatori dei balli. In qualche paese si scatenarono astiose polemiche tra le autorità locali, spesso troppo severe nella tutela dell'ordine pubblico, ed i giovani, desiderosi soltanto di ritrovarsi e di divertirsi insieme. Alla lunga, un po' dovunque, subentrò lo scoraggiamento, la disaffezione e quindi la rinuncia a ballare. Secondo Porcu i contrasti vennero alimentati da chi in qualche modo avversava i balli. Ad esempio, parroci che non li vedevano di buon occhio, sia perché distoglievano dai riti religiosi, sia perché solo una minima parte delle somme incassate dai comitati organizzatori per le feste religiose veniva destinata alle esigenze della chiesa. L'avversione della Chiesa per i balli risale a tempi ben più lontani. Una volta, come informa Sigismondo Arquer (Sardiniae brevis historia et descriptio- 1558), si ballava nientemeno che dentro il tempio e si banchettava in onore del Santo patrono con la carne cotta all'interno della chiesa. Fu il Sinodo turritano del 1555 a porre fine a queste manifestazioni improntate ad una religiosità senza fede. E nel 1708 un altro Sinodo, quello Arborense, vietò anche i balli tenuti sul sagrato durante l'insegnamento del catechismo, dei riti religiosi e delle processioni. Nel 1927 la Sacra Congregazione del Concilio prevedeva posizione contro gli organizzatori accusati di non consultare né i parroci né i rettori delle chiese, di perdere di vista lo scopo principale delle feste che era quello religioso e, inoltre, di sciupare le somme raccolte per un uso profano e non, ad esempio, per i restauri delle chiese, per la beneficenza o per l'acquisto di suppellettili sacre (Monitore Ufficiale dell'Episcopato sardo - gennaio 1927). Nel 1939 la Conferenza episcopale sarda tenutasi a Cuglieri, decise che poteva essere tollerato solo il ballo sardo tradizionale purché non disturbasse le funzioni e se tenuto lontano dalla chiesa. D'altronde è proprio di quel periodo la nota vicenda (di cui si è occupato Paolo Pillonca in Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, nn. 8-10, dicembre 1977) che ha riguardato gli ormai leggendari poeti estemporanei sardi, personaggi mitici ed osannati quanto suonatori di launeddas Questi poeti, oggi ridotti purtroppo ad un numero molto esiguo, ebbero un lungo periodo di conflittualità con il clero, iniziato nel 1824 quando il Concilio Plenario dei Vescovi Sardi li esortò a non trattare temi che richiedevano una conoscenza più che approssimativa della dottrina della Chiesa. Ma poi, nel 1932, considerato che i ripetuti ammonimenti erano serviti a ben poco, l'Episcopato sardo, riunito a Cuglieri, decise di" eliminare le gare poetiche" in quanto contenevano "lazzi inverecondi, frecciate contro la fede e i buoni costumi" e, inoltre, comportavano "grande sperpero di danaro, perché le pretese dei poeti sono insaziabili". Sbaglierebbe, tuttavia, chi ritenesse di poter assimilare le vicende che coinvolsero i poeti estemporanei a quelle che riguardarono i suonatori di launeddas. A parte, infatti, alcune marginali analogie, tali vicende ebbero motivazioni completamente differenti.
In particolare, al contrario di quanto avvenne per le gare poetiche, nessun divieto, nè dell'autorità civile nè di quella religiosa, fu mai emanato nei confronti dei suonatori di launeddas. Anzi, negli anni Trenta, le launeddas erano l'unico strumento musicale ammesso in chiesa. Molti anziani lo ricordano ancora con profonda nostalgia: le sue note toccanti erano un invito alla preghiera ed alla riflessione interiore. A determinare la decisiva riduzione dell'attività dei suonatori fu, come già detto, il venir meno dell'usanza dei balli domenicali nella maggior parte dei paesi. Gli eventi bellici poi, contribuirono ad accentuare l'avvio del declino.
Che inizialmente fu lento e quasi impercettibile soprattutto perché non tutti i suonatori abbandonarono le launeddas: la maggior parte di essi sperò, ma invano, in un ritorno dei tempi aurei. La crisi delle launeddas, dapprima latente, apparve in tutta la sua evidenza molti anni dopo, negli anni Sessanta, quando si dovette prendere atto che il numero dei suonatori era vertiginosamente calato. Eppure nel 1938 e nel 1939 lo strumento godeva ancora di forte prestigio, tale da attirare un folto pubblico anche in città. Proprio in quegli anni, a Cagliari, venne organizzata nella terrazza del Bastione San Remy la manifestazione "Primavera sarda" che mise a confronto ben quindici famosi suonatori. Da un'attenta lettura della cronaca relativa all'avvenimento, riportata ne "L'Unione Sarda", emergono due novità significative, sintomo di un profondo cambiamento, allora appena agli inizi, che segnerà il futuro delle launeddas. La prima è rappresentata dal loro nuovo ruolo: non più quello sociale ed aggregante del passato durante lo svolgimento dei balli in piazza, ma piuttosto quello folkloristico e da spettacolo. La seconda è costituita dalla presenza della fisarmonica nel programma delle serate; nel gradimento popolare, insomma, non vi erano più solo le launeddas. Ed infatti la fisarmonica, fin dalla sua prima comparsa, avvenuta verso la metà dell'Ottocento, per la capacità di emettere una molteplicità di suoni simultanei, ha trovato accoglienza favorevole anche in Sardegna, terra da sempre votata alla polifonia (tenores e launeddas fanno testo sin dall'antichità). La fisarmonica è subito piaciuta ed è diventata una concorrente temibile per le launeddas, anche perché più versatile: con essa si può suonare sia il ballo sardo che quello moderno (ballu civili). Gli organizzatori delle feste patronali (is obbreris) colsero immediatamente questo aspetto: negli anni successivi alla guerra, quando pian piano si ritrovò il gusto e il piacere della festa, con l'ingaggio del solo fisarmonicista e quindi contenendo le spese, riuscirono a mettere d'accordo sia i giovani che esigevano l'esecuzione del ballo moderno, sia gli anziani, nostalgici del ballo sardo. Aumentò, così, il numero dei suonatori di fisarmonica e molti ex suonatori di launeddas si convertirono al nuovo strumento, considerata la crescente richiesta. Negli anni Sessanta e Settanta viene a mancare un adeguato ricambio generazionale di suonatori di launeddas che diventano una rarità. In quegli anni, è bene ribadirlo, è l'intero patrimonio culturale isolano a subire un forte processo di emarginazione, conseguenza dei grandi cambiamenti prodotti dall'industrializzazione nella realtà economica e sociale dell'Isola. La cultura sarda viene vista come deteriore rispetto a quella del Continente: la televisione porta per la prima volta in tutte le case le immagini di una civiltà molto differente che fa apparire improvvisamente arcaico il modo di vivere dei sardi. Il conseguente sforzo di integrazione economica e sociale nella società nazionale fa recepire all'Isola modelli di vita e di comportamento tipici della società industriale sviluppata. Questo processo di omologazione della Sardegna al resto del territorio nazionale si realizza in tempi rapidissimi e coinvolge l'intero territorio regionale, comprese le zone più interne, da sempre le più conservatrici. L'industrializzazione cambia la stessa dislocazione territoriale della popolazione isolana; viene abbandonata la campagna e si va a vivere nelle città che offrono occupazione e reddito meno precari. In questo modo si esaurisce di molto la più importante fonte dell'etnofonia sarda che proprio nel mondo rurale aveva il più geloso custode e la sua più diretta espressione. Lo stravolgimento del vecchio tessuto economico e sociale intacca o quanto meno offusca l'identità specifica del popolo sardo. Nei paesi spopolati per l'inarrestabile emigrazione, le feste in piazza hanno un connotato di tristezza, un sapore decisamente amaro che smorza sul nascere la stessa voglia di ballare, di cantare, di suonare e di gioire insieme. Peraltro i giovani rimasti, che non sono ancora partiti in cerca di lavoro, non vogliono più sentire parlare di ballo sardo; intendono dimostrare di essere moderni sino in tondo e preferiscono i ritmi suonati dalle chiassose orchestrine con batterie, chitarre, trombe e sassofoni. Gli spazi per le launeddas, insomma, si restringono ulteriormente: la loro malinconica presenza viene registrata solo in qualche raro spettacolo in vena di antiche reminiscenze musicali popolari e in pochissime sagre, come quella di Sant'Efisio a Cagliari, dove, per vecchia tradizione, precedono il cocchio del Santo. Per il resto è crisi nera. Per molti anni prevale il disinteresse generale, anche quello delle istituzioni, e le launeddas rischiano di tacere per sempre. Nessuno si cura del loro futuro, nè di tramandarle alle generazioni del domani. I Conservatori di musica le snobbano, ritenendole, a torto, non degne di stare alla pari degli altri strumenti musicali. Solo uno sparuto gruppetto di suonatori resiste e non abbandona le launeddas. La loro passione e la ferma perseveranza si rivelano molto preziose. Ad essi, al loro sacrificio si deve se le launeddas sono sopravvissute. Hanno avuto il merito dì aver saputo trasmettere a qualche giovane il loro entusiasmo e il loro amore per uno strumento che, in cambio, offriva ormai ben poco e meno che mai ricchezza e fama. Non si può parlare di scuole in senso stretto perché l'insegnamento era del tutto empirico, affidato prevalentemente all'orecchio musicale e non ad un metodo razionale. Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta qualcuno tenta di avviare dei corsi per l'apprendimento delle launeddas, ma ben presto deve chiuderli per la carenza degli iscritti ed il loro scarso interesse. Fa eccezione la scuola aperta, nel 1982, dal Comune, a Cagliari, che, invece, registra un gran numero di iscritti (circa 150) e di frequentanti nei tre anni di attività. E forse proprio con questa scuola, affidata al Maestro Luigi Lai di San Vito, si riavvia finalmente la lenta ma efficace ripresa. L'Associazione Cuncordia a launeddas di Cagliari, ad esempio, è stata costituita nel 1987 da una decina di allievi di questa scuola ed ha contribuito al rilancio delle launeddas proponendo il loro tradizionale repertorio musicale in modo originale, ossia in coro, con brani suonati simultaneamente da dieci suonatori, ognuno dei quali esegue una propria parte. Una novità in senso assoluto che suscita subito l'attenzione e l'interesse generali, tenuto conto che fino ad allora le launeddas erano state suonate in prevalenza da solisti. L'Associazione, inoltre, ha intrapreso una rigorosa attività di ricerca scientifica e ne ha raccolto i risultati in un'apposita voluminosa pubblicazione (Launeddas - edita nel 1997). Anche altre Associazioni hanno il merito di questa ripresa, come Sonus de canna di Assemini e S'icandula che opera principalmente a Quartu Sant'Elena. Oggi, forse, il periodo oscuro delle launeddas può considerarsi concluso. Sembrano prospettarsi tempi migliori con il promettente riavvicinamento di molti giovani che stanno riscoprendo l'antico fascino di questo strumento. Ad essi spetta dar fiato, ma anche, e soprattutto, continuare a fornire quell'indispensabile supporto culturale senza il quale il rischio di estinzione o di degrado sarà sempre incombenti.